La terapia di gruppo ci offre una quantità enorme di spunti e chiavi di lettura, sia di tipo cognitivo che emotivo.
Nella relazione con gli altri membri del gruppo sperimentiamo l’universalità della nostra condizione, scoprendo che non siamo soli davanti al dolore.
Gli altri hanno dubbi e paure come noi.
E se stanno superando il proprio disagio, possiamo farlo anche noi.
Ma fare terapia in gruppo ci permette anche di raggiungere una certa consapevolezza sullo scarto esistente tra l’immagine che pensiamo di dare a chi abbiamo intorno e come arriviamo veramente agli altri, attraverso i nostri gesti, le nostre parole e i comportamenti.
Così, tante false convinzioni su noi stessi crollano.
Possiamo lavorare su chiavi emotive attraverso l’uso dello psicodramma, una tecnica che consiste nella messa in scena di vissuti, ricordi, pensieri ed emozioni, che ci permette di assumere tanti punti di vista diversi e di riscrivere la storia, vivendo un’esperienza fortemente catartica e liberatoria.
Nella terapia di gruppo posso riconoscere parti di me stesso negli altri, posso evocare un transfert più completo perché il gruppo diventa una proiezione della famiglia e posso fare un’esperienza emotiva sostituiva, che mi aiuta a correggere la visione distorta che ho di me stesso.
Man mano che l’esperienza clinica va avanti, però, vediamo emergere prepotentemente un altro fattore terapeutico della terapia di gruppo, di cui purtroppo si parla sempre molto poco.

L’Ego, fonte del disagio psichico
Come ci insegna il grande filosofo Aristotele, l’uomo è un animale sociale.
Lacan e Recalcati, invece, ci dicono che noi siamo gli incontri che abbiamo fatto o meglio il modo in cui abbiamo dato forma a quegli incontri.
In poche parole, non possiamo prescindere dalle nostre relazioni.
Quando lo facciamo, ecco aprirsi la strada verso la sofferenza.
Secondo la maggior parte delle scuole sapienziali, infatti, una delle principali fonti di disagio psichico è l’identificazione con l’Ego (Io) come entità isolata da tutto il resto. La sofferenza che proviamo deriva in massima parte dalla falsa convinzione di essere una monade priva di contatti con l’esterno, qualcosa di separato rispetto all’universo, alla natura e alla comunità.
La persona che si identifica nell’Ego si trova in costante stato di allerta, si sente sempre in pericolo, esposta a potenziali minacce perché è convinta di essere sola contro tutto. Avverte un grande vuoto, una solitudine di fondo e proprio per questo assume un atteggiamento caratterizzato da paranoia e aggressività.
Di fatto, quella persona è in un perenne stato di attacco-fuga perché è spaventata. Sta sempre sul chi vive, pronta ad aggredire – quando si sente abbastanza forte e crede di poter prevalere sulla minaccia esterna – oppure a scappare, nel caso in cui si senta debole e impotente.
Quello che le manca è il senso dell’armonia con il tutto.
Da qui derivano difficoltà e disagi di varia natura come la depressione, i problemi nella gestione della rabbia, i disturbi paranoidei che portati alle loro estreme conseguenze sfociano nella psicosi, i disturbi della sessualità, le difficoltà relazionali e in ambito familiare.
Volendo allargare lo sguardo, da questa situazione scaturiscono anche problematiche di tipo sociale, legate alla crisi ambientale, ai conflitti bellici, all’edonismo capitalistico denunciato già a suo tempo da Pier Paolo Pasolini…che sono una conseguenza collettiva di quel che avviene dentro di noi e di come ci sentiamo in relazione al mondo e agli altri.
Sono derive sociali dell’Ego.
È tutta una conseguenza del fatto che io mi identifico con l’Ego, con il mio Io e quindi non mi interesso di nient’altro, né dell’ambiente né del prossimo.
Come nasce l’Ego?
Volendo unire le teorie di Bowlby sull’attaccamento e gli studi dei grandi maestri orientali, possiamo dire che l’Ego si forma nei primi anni di vita, durante l’infanzia.
Un bambino che non si sente accolto e amato dalla propria famiglia, avverte di non farne parte. Si sente rifiutato e solo e di conseguenza fatica a sentirsi parte di qualcosa di più grande di lui, che si tratti della comunità umana o della natura.
La verità è che ognuno di noi fa parte dell’universo.
Ma è la famiglia a creare o recidere questo legame, a instillare in noi la convinzione di essere una componente del tutto.

Sciogliere l’Ego nel gruppo con la terapia di gruppo
Nella terapia di gruppo – più che nella terapia individuale – è possibile lavorare per sciogliere una grossa quota di Ego.
Nel gruppo, infatti, l’individuo fa esperienza diretta del far parte di qualcosa di più grande, dell’essere accolto e di partecipare a una comunità di cui è membro.
Mentre si lavora sull’acquisizione di abilità relazionali e sui vari elementi che abbiamo elencato, nel frattempo, a livello trasversale, si muove l’esperienza di far parte di qualcosa di più grande di sé che è il gruppo e soprattutto la mente di gruppo.
Il gruppo, infatti, non è solo un certo numero di persone che si riuniscono regolarmente per fare psicoterapia e condividere. All’interno di esso si crea un meccanismo, un sistema per cui l’insieme delle singole parti è molto più della semplice somma e ha caratteristiche sue proprie, molto importanti e benefiche.
Nel gruppo, 2+2 non fa 4, ma 5, 6, 7 o anche di più.
Questo qualcosa in più è la mente di gruppo, che è quasi un’entità a sé.
Chi non ha mai partecipato a un gruppo non può capire bene di cosa stiamo parlando. E qualcosa con cui si può entrare in contatto soltanto facendone esperienza diretta.
La persona che partecipa al gruppo di terapia sente chiaramente di essere il polo di un particolare campo magnetico, di una consapevolezza, di una coscienza che non è la sua singolare ma non è neanche la somma delle diverse consapevolezze degli individui, ma è qualcosa di più grande di tutti loro messi insieme.
Questo qualcosa di più grande – la mente di gruppo – è in grado di vedere cose che l’individuo non può vedere.
Può compiere psicodinamiche che i singoli individui da soli non sono in grado di muovere.
Quindi, l’individuo sente che il proprio Ego viene sciolto volentieri all’interno di questa entità salvifica: il gruppo diventa un varco per interiorizzare la sensazione e la consapevolezza di essere parte del tutto.
Ci si sente finalmente parte del tessuto del mondo e della rete sociale, in comunione e armonia.
Articolo a cura del dottor Simone Ordine, psicologo e psicoterapeuta
Immagine di copertina: Immagine di Freepik