Per le persone che soffrono di disforia di genere spesso è molto difficile rintracciare un terapeuta che possa seguirle e aiutarle nel proprio percorso. Sono ben pochi i professionisti che si sentono in grado di prendere in carico questo tipo di problemi.
Aiutare una persona con disforia di genere comporta un’enorme responsabilità, che non tutti riescono ad assumersi poiché un errore, in un senso o nell’altro, ha un impatto molto forte sulla salute mentale e fisica del paziente.
Una diagnosi sbagliata può costargli la vita.
Vediamo in che senso.
Il mancato riconoscimento della disforia di genere
Prendiamo il caso del mancato riconoscimento della disforia di genere. Non sempre, infatti, il terapeuta che si trova di fronte questo disturbo riesce a individuarlo correttamente.
In situazioni come questa c’è il forte rischio che la terapia si prolunghi all’infinito senza apportare alcun beneficio concreto al paziente che affronta questo percorso. Il paziente con disforia di genere, infatti, è portatore di un estremo disagio, che gli impedisce di vivere in modo pieno e appagante e lo ostacola nella sua realizzazione personale.
Non soltanto a livello relazionale ma anche nell’ambito lavorativo, per esempio.
In alcuni casi, il terapeuta potrebbe persino scambiare la disforia di genere con una mancata accettazione della propria sessualità. Nel tentativo di aiutare il paziente ad abbracciare la propria sessualità biologica, non fa che amplificare il problema anziché promuoverne la risoluzione.
Disforia di genere e diagnosi troppo affrettata
D’altro canto, anche un’eccessiva prontezza nel fornire una diagnosi di disforia di genere può rivelarsi estremamente controproducente e dannoso per il paziente.
Stiamo parlando di un problema delicato, che deve essere valutato con attenzione prima di procedere con il rilascio di un certificato che avalla la transizione e consente di intraprendere uno specifico percorso.
Troppa leggerezza può portare a una diagnosi errata.
È possibile, infatti, che il paziente che arriva in terapia stia facendo i conti con un altro tipo di problema. Magari, in lui o in lei c’è ancora un’immaturità di tipo sessuale o identitario.
A volte, un profondo disturbo di identità può mascherarsi da disforia.
In altri casi, il disagio manifestato può sorgere da un momento di crisi dell’evoluzione psico-sessuale dell’individuo che, però, non configura una vera e propria disforia di genere.
In casi di questo tipo, il terapeuta inesperto potrebbe pensare di aiutare il paziente rilasciando il certificato che consente di proseguire nel percorso. Tuttavia, qualche anno dopo, alcune manifestazioni psicologiche indicano chiaramente che c‘è stato un errore.
Per esempio, il paziente potrebbe manifestare una depressione apparentemente immotivata, accompagnata da incubi ricorrenti. Una persona che ha sta affrontando una transizione FtM (female to male, da un corpo femminile a uno maschile) potrebbe sognare una donna che viene seppellita viva. Si tratta di un sogno simbolico in cui emerge il disagio legato al fatto di aver seppellito viva quella componente femminile, che è stata negata.
Anche in questo frangente ci troviamo di fronte a un mancato riconoscimento. Un errore che produce estrema sofferenza nel paziente.
Il terapeuta di fronte alla disforia di genere
È proprio per questi motivi che è difficile trovare un terapeuta che sappia affiancare e sostenere la persona che soffre di disforia di genere nel suo percorso.
Può capitare che, di fronte ai primi segnali di una disforia di genere, il terapeuta assuma un atteggiamento molto prudente. Questo, però, può portare a un temporeggiamento senza limite, che porta a uno stallo della terapia.
In altri casi, assistiamo a una presa di coscienza del proprio limite di fronte a un problema che non si è in grado di gestire e trattare. A quel punto, il terapeuta preferisce rinviare il paziente a un altro collega più esperto e competente.
Questo è un atteggiamento decisamente più sano.
Sintomi e diagnosi della disforia di genere
È importante conoscere i sintomi della disforia di genere per poterla diagnosticare correttamente e indirizzare la persona perché possa intraprendere il percorso più adeguato alle sue necessità.
Il DSM-V contiene una serie di criteri da prendere in considerazione:
Devono esserne presenti almeno due di questo sintomi per un tempo di 6 mesi (o più):
- Marcata incongruenza tra genere esperito o espresso e caratteristiche sessuali primarie (gli organi dell’apparato riproduttivo) e/o secondarie (tutti quegli aspetti che emergono nel corso dello sviluppo, per es. per le femmine lo sviluppo del seno, l’allargamento del bacino oppure per i maschi il tono della voce che si fa più grave, lo sviluppo della muscolatura)
- Desiderio molto forte di liberarsi delle proprie caratteristiche sessuali primarie e secondarie a causa della mancata congruenza tra sesso biologico e identità di genere. Nel caso di adolescenti, essi manifestano il desiderio di prevenire lo sviluppo delle caratteristiche sessuali secondarie previste dal loro sesso di nascita
- Forte desiderio di appartenere al genere opposto (oppure a un genere diverso da quello assegnato alla nascita)
- Forte desiderio di possedere le caratteristiche sessuali primarie o secondarie del genere opposto
- Forte desiderio di vivere ed essere trattato dagli altri come un membro del genere opposto, quindi di essere riconosciuto nella propria identità
- Convinzione forte di possedere sentimenti e reazioni tipici del genere opposto
È possibile che i primi sintomi della disforia di genere si manifestino già nell’infanzia, intorno ai 2/3 anni.
Nei bambini si osservano comportamenti come:
- desiderio di indossare abiti e giocare con giochi generalmente associati all’altro sesso
- insofferenza e disagio verso i propri genitali e desiderio di sbarazzarsene
- affermazione di essere del sesso opposto
- disagio nei confronti dei cambiamenti del proprio corpo associati allo sviluppo durante la pubertà.
Disforia di genere e transizione: l’adeguamento del corpo al sesso percepito
Una volta accertata da parte di un esperto la presenza di una disforia di genere, avviene il rilascio di un certificato medico che rappresenta un lasciapassare necessario a intraprendere un percorso di transizione.
Tale percorso prevede una serie di passaggi, diversi a seconda che si parli di un transizione FtM (female to male), prevista per la persona nata in un corpo dalle sembianze femminili che si percepisce come maschio oppure di transizione MtF (male to female), che riguarda la persona nata biologicamente maschio che si percepisce come femmina.
Per riallineare il corpo all’identità percepita, si utilizzano i farmaci e la chirurgia.
La transizione FtM: chirurgia e ormoni mascolinizzanti
La transizione FtM, cioè il passaggio da un corpo dall’aspetto femminile a uno maschile, prevede:
- intervento di mastectomia, con rimozione del seno e ricostruzione del torace maschile
- intervento di isterectomia, con la rimozione delle ovaie
- assunzione di testosterone, l’ormone maschile che comporta una mascolinizzazione del corpo (crescita di peli, barba e baffi, redistribuzione del grasso corporeo, aumento della muscolatura)
- intervento di falloplastica, per ricostruire un pene
Non è detto che tutti gli uomini trans che vanno incontro a una transizione scelgano di effettuare tutti i passaggi. In particolare, alcuni si fermano prima dell’operazione di chirurgia ricostruttiva della parti intime.
In effetti, si tratta di un intervento importante e piuttosto invasivo.
Altri paziente, invece, preferiscono procedere anche per alleviare una serie di disturbi legati all’assunzione di ormoni maschili. Quando si prende il testosterone, infatti, è possibile andare incontro ad alcuni effetti collaterali che interessano le parti intime come mancata lubrificazione, secchezza e prurito.
Esistono due tipi di interventi di ricostruzione dei genitali maschili.
Il primo è la metoidioplastica, che consiste nello scoprire il clitoride, divenuto ipertrofico grazie alla somministrazione del testosterone, per farne un piccolo pene.
Questo tipo di operazione ha il vantaggio di essere poco invasiva e di non intervenire sulle vie nervose poiché si agisce su una parte del corpo già innervata e funzionale. In questo modo si riesce a ottenere un pene molto somigliante a quello biologico, anche se di dimensioni ridotte rispetto alla media.
L’erezione è spontanea e naturale e c’è un’ottima risposta poiché si mantiene la sensibilità del clitoride.
La metoidioplastica prevede fasi diverse, che includono anche la scrotoplastica, con l’inserimento di una protesi per creare i testicoli.
L’altro intervento di chirurgia ricostruttiva possibile è la falloplastica, che consiste nel realizzare ex novo dell’organo genitale maschile utilizzando lembi di pelle prelevati da altre zone del corpo. Solitamente, i tessuti vengono presi dal braccio o dalla gamba. Si tratta di porzioni piuttosto estese, il che rende questa operazione molto più invasiva rispetto alla precedente.
Se si sceglie questa strada, si ha il vantaggio di ottenere un pene di dimensioni più grandi. Tuttavia, talvolta la forma non è molto corrispondente.
Inoltre, le vie nervose vengono molto più maneggiate. Allo stato attuale della ricerca medica, non c’è una piena sicurezza di riuscire a mantenere delle sensazioni tattili e nervose adeguate, il che può comportare una maggiore difficoltà nel raggiungimento di un pieno orgasmo.
La transizione MtF: chirurgia e ormoni femminilizzanti
Nel percorso, MtF si ha un iter del tutto simile:
- intervento di mastoplastica additiva per ricostruire il seno
- assunzione di progesterone, ormone che ha un effetto femminilizzante sul corpo
- intervento di rimozione del pene e vaginoplastica
Anche in questo caso, spesso la persona transessuale preferisce fermarsi prima di effettuare l’operazione di ricostruzione degli organi genitali.
Tuttavia, oggi esiste un intervento semplice e poco invasivo: la vagina viene ricostruita a partire dalla pelle dello scroto e questo consente di ottenere un risultato soddisfacente sia a livello morfologico che per quel che riguarda l’aspetto delle sensazioni.
Aspetti psicologici della transizione
Molto spesso, quando si parla di disforia di genere e transessualità, ci si concentra sulla mera apparenza del corpo, dimenticando che durante la transizione entrano in gioco tanti aspetti psicologici.
Non esiste una vera e propria letteratura in merito. Tuttavia, nel corso della pratica clinica quotidiana abbiamo potuto osservare una serie di fenomeni che possiamo definire statisticamente significativi poiché coinvolgono tantissimi pazienti.
Disforia di genere: l’effetto degli ormoni sulla percezione di sé
Innanzitutto, dobbiamo osservare che l’assunzione di ormoni non ha effetti soltanto sulla morfologia del corpo in senso mascolinizzante o femminilizzante.
Queste sostanze producono conseguenze anche a livello della personalità dell’individuo e favoriscono la percezione di una maggiore congruità rispetto all’immagine di sé.
Anche gli ormoni aiutano la persona a riconoscersi.
Disforia di genere e autostima
Altro elemento da tenere in considerazione è quello relativo all’autostima.
La persona che ha vissuto gran parte della propria esistenza in un corpo che sentiva come sbagliato, ogni volta che riceveva complimenti, non riusciva ad accoglierli. Questo perché sentiva che quelle osservazioni positive erano rivolte a un’identità che non percepiva come la propria.
Possiamo dire che la persona che soffre di disforia di genere non ha mai ricevuto quelle carezze di cui tutti noi abbiamo bisogno.
Inoltre, quando quei complimenti erano relativi all’aspetto fisico (per es. “Ah che bella ragazza”), si sono rivelati dolorosi perché andavano a sottolineare, spesso senza volerlo, ciò che la persona sentiva come estraneo.
Quelle parole sono state mortificanti, avvilenti.
Passare una vita intera immersi in questa situazione provoca forti danni all’autostima individuale, che ne esce a pezzi, completamente distrutta.
Per questo, uno dei principali compiti del terapeuta che accompagna il paziente nella transizione è aiutarlo ricostruire la propria autostima.
Le difficoltà con l’altro sesso, sentito come irraggiungibile
Il padre della psicoanalisi, Sigmund Freud, aveva individuato il complesso di Edipo come elemento costitutivo della personalità. Oggi sappiamo che questo momento evolutivo probabilmente non rappresenta il centro di tutta la Psiche. Tuttavia, il complesso edipico rimane un aspetto fondamentale nello sviluppo dell’individuo.
La persona che manifesta una disforia di genere salta necessariamente questo passaggio perché non ha la concreta possibilità di metterlo in atto.
Un maschio nato in un corpo biologicamente femminile dovrebbe poter vivere un fisiologico innamoramento nei confronti della madre e avviare quel processo che porta alla competizione con il padre, visto come un rivale.
Ma perché questo accada, la madre dovrebbe poterlo riconoscere come maschietto, cosa che non avviene.
La madre, infatti, lo vede come una femmina.
Lo stesso accade per le donne nate biologicamente maschi. Da bambine dovrebbero poter sviluppare quel legame speciale con il proprio padre, come accade per le figlie femmine. Ma il padre non è in grado di riconoscere l’identità femminile celata all’interno di quel corpo dall’apparenza maschile.
Tutto questo provoca dei gravi squilibri e un problema nel formare l’immagine interna del maschile e del femminile.
La principale conseguenza di questo stato di cose è un’evidente difficoltà nella sfera sentimentale e sessuale. Una difficoltà che, ovviamente, le persone che non vivono questa condizione non conoscono e non riescono nemmeno a comprendere.
Nel corso della vita, questo trauma pre-edipico viene rafforzato da altri traumi successivi.
Finché la disforia di genere non viene riconosciuta, infatti, questa persona vive gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza – periodo in cui si esplora e si forma la propria identità – sentendo l’altro sesso come qualcosa di irraggiungibile.
Lui o lei percepisce come un muro tra sé e l’altro sesso e interiorizza la convinzione erronea che esista un divario enorme tra i due sessi.
Il ripetuto mancato riconoscimento della propria identità da parte degli altri continua a minare la sua autostima e fa depositare nella sua mente l’idea di non essere appetibile, di non piacere e che non ci sia per lui o per lei alcuna possibilità instaurare una relazione con un membro dell’altro sesso.
È come un falso apprendimento perché le persone transessuali ricevono continue delusioni e rinforzi negativi.
La self efficacy rispetto alla possibilità di vivere una storia d’amore viene completamente persa.
Per questo, dopo la transizione, la persona deve essere aiutata a ricucire e sanare queste profonde ferite attraverso un percorso di psicoterapia.
Passioni e attitudini sommersi, legati alla propria vera identità
Vorrei puntare l’attenzione anche su un altro elemento che in pochi conoscono e che ho potuto osservare durante le sedute di psicoterapia con tanti pazienti che stavano affrontando l’iter di riassegnazione del sesso.
Nella persona con disforia di genere spesso si crea come un profilo sommerso, non soltanto emotivo, ma anche cognitivo e intellettuale.
Ciò significa che alcuni talenti, desideri, passioni e attitudini rimangono nascosti e sommersi finché non avviene la transizione. Soltanto a quel punto, quando l’identità dell’individuo viene riconosciuta, quelle capacità si slatentizzano.
Mi è capitato di seguire una ragazza nata biologicamente maschio che come donna aveva una grande passione talento per la fisica. Una passione che non si era mai manifestata prima e che, quando viveva in un corpo maschile, non riusciva a percepire.
Alcuni talenti, anche a livello artigianale, sembrano essere legati all’identità sessuale.
Persino alcuni aspetti del carattere vengono alla luce soltanto dopo. Una persona può sentire di essere passiva con un’identità che non le è propria, ma dopo la transizione esce fuori un carattere da leader, che prima era del tutto assente.
Identità di genere e sessualità
È importante ricordare e ribadire che l’identità di genere non ha nulla a che vedere con le preferenze sessuali dell’individuo.
Stiamo parlando di due elementi tra di loro distinti e indipendenti-
Ciò significa che una persona con disforia di genere può essere sia eterosessuale che omosessuale.
Si può nascere biologicamente femmina, sentirsi maschio, effettuare un percorso di transizione e sentirsi comunque attratti dagli uomini.
Questo non deve essere visto come una contraddizione.
Eppure, a volte, il paziente stesso cade in questa trappola e dopo aver fatto la transizione fa fatica ad accettare la propria omosessualità.
Il terapeuta deve aiutarlo a capire che è del tutto normale e supportarlo perché elabori anche questo aspetto di sé, in modo che non si neghi la possibilità di vivere serenamente il proprio orientamento sessuale e affettivo.
a cura del dottor Simone Ordine, psicologo e psicoterapeuta del Centro Il Filo di Arianna